La nascita dell’Aikido                                                                                                                  18/6/2010

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Testo tratto da “Aikido, le livre du débutant” di Stéphane Benedetti (Editions du Soleil Levant – France). Traduzione di Alessandro Vatta 

L’Aikido è apparso sotto questo nome nel 1942; l’Aikikai è stato ufficialmente fondato l’8 febbraio 1948, data in cui il Ministero della Cultura giapponese autorizzò, subito dopo la guerra, l’apertura dell’Aikikai- Aikido so hombu: il centro mondiale dell’Aikido. 

Il suo fondatore, Morihei Ueshiba, nato il 14 dicembre 1883 a Tanabe, consacrò tutta la vita allo studio delle arti marziali e alle pratiche spirituali (kotodama) della setta shinto Omoto. Ricordiamo alcuni avvenimenti che influenzarono particolarmente Morihei: 

 – il Daito ryu del temibile Takeda Sokaku con il quale studia dal 1912 al 1916 (menkyo kaiden). 
– il Kito ryu, fondato da un monaco cinese, e che sta anche all’origine del Judo.
– il Yagyu Shinga ryu (menkyo kaiden). Queste tre scuole formano la base del tai-jutsu(tecniche a mano libera) nell’Aikido. 
– il Yagyu Shinkage Ryu e il Katori Shinto Ryu influiscono profondamente sull’Aikido.
– il Hosoin Ryu So-Jutsu (arte della lancia) che ritroviamo nell’Aikijo. Il jo (bastone) ha sostituito la lancia (jari) durante la pratica nel Dojo. 

Una voce molto diffusa vuole che il Maestro Ueshiba abbia praticato in una scuola di Kung-Fu durante la sua permanenza in Cina, ma scartiamo l’idea viste le circostanze d’allora. 

L’eccentrico Onisaburo Deguchi della setta Omoto è una figura chiave nella vita del Maestro Ueshiba. Mistico, calligrafo, ceramista, poeta, avventuriero, divenne il maestro spirituale di Morihei Ueshiba. Quest’ultimo considerava l’Aikido l’espressione degli insegnamenti esoterici (kotodama) della religione Shinto così come era stata predicata da Deguchi. Non è inutile ricordare, a questo punto, che il buddismo Zen non ebbe nessuna influenza particolare sulla formazione dell’Aikido. Tuttavia il Maestro Kissaburo Osawa, il compianto direttore tecnico dell’Aikikai e Daitetsu Suzuki, il celebre autore dei “Saggi sul Buddhismo Zen” considerano l’Aikido come “Zen in movimento”.

Shugyo                                                                                                                                       19/10/2010

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Se amate la vita comoda lasciate perdere questa disciplina, la capacità di rinnovare l’universo viene dalla grazia non dalla logica. Un’illuminazione, qualsiasi essa sia, arriva dopo che la strada del pensiero è stata bloccata; e se volete oltrepassare questa barriera dovete lavorare con ogni parte del vostro corpo, con ogni poro della vostra pelle, saturati da questa domanda: ”che cos’è Mu?”.

Non si creda che il comune simbolo negativo non significhi nulla, non è il nulla l’opposto dell’esistenza; bisogna praticarlo non parlarne, deve essere come un muto che ha fatto un sogno, lo conosce ma non lo può raccon- tare. L’illuminazione a cui mira l’Aikido, e per cui esso stesso esiste, viene da se stessa; è come la coscienza, in un momento non esiste ed il succes- sivo esiste; purtroppo troppo spesso l’uomo, per sua natura, cammina nel suo tempo come camminasse nel fango, trascinando i piedi e con essi la sua vera natura.

Praticare l’Aikido non è come voler arrivare ad una risposta attraverso la mente ordinaria, la quale lavora sulla concettualizzazione delle cose, ma piuttosto di capire direttamente che i nostri concetti non potranno mai darci una risposta soddisfacente; nessun concetto, nessuna idea, nessun lavoro intellettuale potranno mai dare la risposta a ciò che cerchiamo. 

Questo però non vuole dire abbandonare tutto e lasciare semplicemente che i fiori sboccino. La pratica va sì al di là della ragione ma questo non è un invito a distruggere o negare l’intelletto, semplicemente la “realtà” non deve essere catturata con il pensiero, con una frase o una spiegazione; non dobbiamo quindi liberarci dell’intelletto umano credendolo negativo, dob- biamo semplicemente prendere coscienza che può solamente costruire dei modelli di realtà ma non la realtà stessa.

Il problema comune è che restiamo invischiati nelle nostre costruzioni mentali e le scambiamo per la “realtà”; questa però non può essere costruita, esiste già e, quasi sempre, mai come crediamo di averla capita. L’annaspare nella ricerca di spiegazioni e soluzioni concettuali è la causa degli infiniti problemi del praticante; infatti nel momento stesso in cui afferriamo (o crediamo di averlo fatto) un concetto, tralasciamo la realtà vera e propria, la nostra mente concettuale è altamente impegnata a pensare, analizzare, controllare, pianificare, compiacersi; per essa tutto diventa bianco o nero, giusto o sbagliato, amico o nemico.

La salvezza? Potrebbe essere la libertà del non attaccamento, la non parti- colarità di ogni cosa, di ogni pensiero che incontriamo, e addirittura di noi stessi.

Shugyo – pratica austera – rappresenta il periodo nel quale il praticante si dedica alla ripetizione ascetica delle tecniche; ciò vuol dire praticare senza consapevolezza? Aspettando fiduciosi e sicuri che prima o poi arriverà il momento dell’illuminazione? “Presenza a voi stessi” – “Qui e ora” – sono solo alcune delle frasi si sentono dire ripetutamente dai maestri, ma cosa significano in realtà?

Chi riesce a capirle vede da lontano la strada per poter iniziare il proprio cammino, chi riesce a metterle in pratica sta lentamente camminando su quella strada sperando, un giorno, di avere raggiunto la consapevolezza di essere tutt’uno con tutto ciò che lo circonda, in ogni momento della gior- nata ed in qualsiasi situazione; riuscirà così ad assaporare completamente ed a sentirsi parte integrante del tutto in ogni frazione temporale della sua vita.

Per il momento… pratichiamo.

Bokken: il prolungamento del Ki                                                                                                24/8/2010

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L’utilizzo delle armi nella pratica dell’Aikido è un prezioso metodo di apprendimento in quanto attraverso gli spostamenti del corpo ed i cambi di profilo, permette di mettere in relazione il corpo nella sua totalità; inoltre, tenendo un’arma tra le mani, l’aikidoka (sia esso un principiante o un esperto) può visualizzare il prolungamento del proprio Ki che dal punto di origine si espande alle mani ed alla punta dell’arma stessa, ed oltre… Lo studio delle armi è inoltre utile in quanto permette una “visualizzazione” dei tagli.

 L’aikiken (lo studio della spada) è l’elevazione della percezione in quanto le tecniche eseguite con la spada di legno (bokken) priva della tsuba (particolare questo che la differenzia dalle scuole di kenjutsu e kendo), non offrono sufficienti margini di errore entro i quali poter correggere il tempo di entrata o la postura.

Per utilizzare il bokken, il praticante deve saper guardare dentro di sé e sentire fluire l’energia attraverso la sua arma che diventa immediatamente parte del suo corpo. I principi che animano il bokken impongono nella pratica il giusto profilo, il giusto tempo tecnico ed un giusto atteggiamento mentale. Non si contrasta l’attacco ma ci si volge direttamente al centro, nel vuoto che l’attacco ha creato, inserendovi la parte di lama chiamata monouchi. Ed è questo vuoto il reale obiettivo della bokken, simulacro della più famosa katana.

 La tradizione delle armi di legno in Giappone era decaduta con l’avanzare delle tecniche di fusione dei metalli e la costruzione delle prime spade in cui presto i maestri artigiani giapponesi diventarono abili e raffinati. Fu il diffondersi delle scuole (kenjitsu ryu) che permise al bokken una prima importante rivalutazione. Durante gli allenamenti risultava pericoloso impugnare una vera spada e spesso anche nelle simulazioni rallentate c’era il rischio di rovinare l’arma o di procurarsi delle ferite. L’alternativa era l’uso di una spada di legno modellata e sagomata con le stesse caratteristiche di maneggevolezza della spada. Tra i vari tipi di legno al principio si preferì usare la quercia rossa e bianca, un legno ottimale per la durezza ed il peso. Furono sempre le scuole a differenziarlo sempre di più, ogni Ryu aveva i suoi metodi ed i suoi stili che incidevano anche nella forma e nella fabbricazione dei bokken.

Nel periodo degli Shogun le varie scuole di Kenjitsu verificavano l’efficacia delle loro tecniche in veri e propri duelli con le spade vere (Shinken Shobu). Questa pratica comportava la morte del perdente o, talvolta, di entrambi i contendenti. Furono quindi emanati editti che proibirono lo Shinken Shobu e fu così che il Bokken rimpiazzò la spada in questi duelli fra le varie scuole. Tuttavia quest’arma in apparenza non letale e priva di taglio poteva procurare gravi ferite e in alcuni casi anche la morte; con il passare del tempo il bokken migliorò la sua efficacia fino a diventare un’arma vera e propria, tanto che alcuni samurai finirono col preferirla alla vera spada; tra questi Myamoto Musashi, noto per aver vinto più di 60 duelli, in alcuni casi affrontò l’avversario usando il bokken anche contro armi reali. La tendenza produsse un’ulteriore irrigidimento delle leggi ed anche quest’arma fu vietata ed il suo uso ristretto ai Kata (forme di apprendimento figurato).

Nei duelli tra scuole fu introdotta una spada fatta da strisce di bambù tenute insieme da legacci di cuoio (shinai), usato anche dal Kendo moderno, e che consentiva un certo margine di incolumità. Strumento ideale per la pratica sportiva lo shinai, tuttavia non dà la piena sensazione di una spada vera, per cui i kata di Kendo e la pratica delle armi in Aikido sono ancor oggi eseguiti con il bokken. Il praticante di oggi acquista un bokken commerciale fatto con un legno comune in quanto procurarsi o costruire un buon bokken non è molto facile; conoscenza della tecnica, utilizzo di un ottimo legno, una buona levigatura ed una concentrazione di tipo spirituale sono le condizioni indispensabili per la costruzione di un bokken degno di questo nome, ed ormai anche in Giappone questa antica arte vive un inesorabile declino e gran parte della produzione è di tipo industriale.

Sulla “via del guerriero”                                                                                                            21/12/2010

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 “Una volta ti ho detto che il nostro destino di uomini è imparare, per il bene o per il male”.

Mi ricollego al post precedente, al tema della “via del guerriero”. Penso sia una cosa molto importante, nonostante possa sembrare una cosa un po’ bizzarra e anacronistica. Ne parlo dal mio punto di vista e in base alle mie esperienze, ma immagino di non essere un caso poi così unico.

Per me il punto di partenza è stato la consapevolezza di un disagio, la percezione dolorosa dei propri limiti. Grande presunzione, grandi mete, e contemporaneamente scarsa volontà e disponibilità a impegnarsi sul serio per raggiungerle. Fretta.

L’aikido è stata forse la prima disciplina in cui ho trovato stimoli per persistere nel mio intento di imparare e, pian piano, cambiare. Ciò che mi ha colpito fin dall’inizio è stato il contegno e l’atteggiamento che contraddistinguono i praticanti di questa “arte marziale” (non tutti naturalmente!).

“Sentirsi importanti fa diventare pesanti, sgraziati e vani. Un uomo di conoscenza deve essere leggero e fluido”.

In seguito ho potuto riconoscere in ciò alcuni tratti del concetto di “guerriero”, così come lo si può trovare descritto anche nei libri di Carlos Castaneda (le citazioni sono tutte tratte da questo autore).

Qui si parla dell’apprendistato di un giovane studioso di antropologia (lo stesso Castaneda) presso uno degli ultimi “sciamani” del Messico. Si tratta perciò di una storia il cui punto fondamentale è la strada verso la conoscenza, eppure ciò che il saggio insegna al suo apprendista è la via del guerriero. Gli dice:

“Un uomo va alla conoscenza come va alla guerra, vigile, con timore, con rispetto e con assoluta sicurezza. Andare alla conoscenza o andare alla guerra in qualsiasi altro modo è un errore, e chiunque lo farà vivrà per rimpiangere i propri passi.”

La via del guerriero direi che è una maniera di vivere e di osservare il mondo, forse l’unica possibile per chi vuole imparare, conoscere. È una questione di “igiene” in un certo senso. Significa, secondo me, formarsi pian piano una costituzione interiore sana, cioè armoniosa e salda, pulita.

Se cerchiamo la conoscenza, dobbiamo mettere in conto anche di trovarci di fronte a situazioni e fenomeni che non sono quelli usuali e rassicuranti, col rischio di arrestarci disorientati, rotti. Perciò occorre la struttura interiore del guerriero. Forse questo può sembrarci strano, perché quando diciamo “conoscenza” pensiamo perlopiù allo studiare tanti libri, o alla ricerca in laboratorio…ma è davvero così? 

Lo sciamano ci dice che il mondo è quello che vediamo perché abbiamo imparato a guardarlo così, a descriverlo in questo modo, a confermarcelo in questa sua familiare forma con il nostro incessante dialogo interno. Ma se vogliamo sul serio conoscere è chiaro che questi pregiudizi dovranno incrinarsi e andare in pezzi, o perlomeno dovranno essere riconosciuti nella loro relatività.

Questo per me fa parte del lato “spirituale” dell’aikido.

“Preoccupati e pensa prima di prendere qualsiasi decisione, ma una volta deciso segui la tua strada libero da preoccupazioni e pensieri; ci saranno ancora milioni di altre decisioni ad aspettarti. Questo è il comportamento da guerriero”.

 “Ormai dovresti sapere che un uomo di conoscenza vive agendo, non pensando all’agire, né pensando a quello che penserà quando avrà terminato di agire”.

 “La sicurezza del guerriero non è quella dell’uomo comune: l’uomo comune cerca la certezza negli occhi di chi guarda e la chiama sicurezza di sé; il guerriero cerca l’impeccabilità nei propri occhi e la chiama umiltà. L’uomo comune dipende dai suoi simili, mentre il guerriero dipende solo dall’infinito”.

“Un guerriero sa di essere solo un uomo. Il suo unico rimpianto è che la brevità della vita non gli consente di afferrare tutto quello che vorrebbe, ma per lui questo non è un problema, è solo un peccato”.

P.S.: In una forma meno appariscente la via del guerriero è racchiusa, secondo me, anche nei cosiddetti “6 esercizi complementari” (o fondamentali) di R. Steiner (cfr. soprattutto “La scienza occulta” e  “Lezioni per una scuola esoterica”).

— Marco (MuTokuKan Dojo)

Sankaku, Maru, Shikaku: i simboli grafici dell’Aikido                                                              21/12/2010

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“L’Aiki è una riunione di triangolo, cerchio e quadrato”.

Con queste parole di O’Sensei vorremmo introdurre alcune sintetiche considerazioni sul significato della grafia simbolica dell’Aikido; questo simbolismo grafico è diffuso pressoché in tutte le culture, con significati e funzioni analoghi.

Essendo l’aikido un’arte la cui prima e più evidente modalità espressiva è quella motoria non dovrebbe stupire che alcuni insegnamenti vi si trovino espressi nei termini di un simbolismo grafico, in particolare geometrico. Le nostre considerazioni in questa sede traggono origine in particolare da due di questi insegnamenti offerti dal Fondatore e da Shirata Sensei: nel primo O’Sensei invita ad entrare nella sfera dell’avversario secondo il triangolo, guidarlo secondo il cerchio e sottometterlo secondo il quadrato. In questa istruzione perciò le tre figure vengono legate alle successive fasi di esecu- zione di una tecnica: entrata, conquista del centro, proiezione o immobiliz- zazione.

Nell’esempio di Shirata Sensei egli associa la successione nell’ordine a Ikkyo, Irimi Nage, Shiho Nage, secondo un diverso punto di vista che fa corrispondere ai tre simboli i principi fondamentali dell’aikido attraverso le tecniche che meglio ne manifestano l’essenza. Entrambe le applicazioni, se pur differenti, si sostengono vicendevolmente e coincidono sul piano dei significati più intimi.

IL TRIANGOLO

Nell’istruzione di O’Sensei il triangolo (con il vertice verso l’alto) corrispon- de allo stabilirsi del contatto tra Shite ed Aite; quest’azione in aikido non è
un generico avvicinarsi, bensì “entrare nella sfera dell’avversario”, vale a dire eseguire Irimi come un cuneo all’interno del ceppo. Ciò tanto per i movimenti variamente indicati come Irimi e Omote, ossia quelle tecniche in cui il processo successivo al contatto segue le linee d’azione più o meno diritte, quanto per le forme Tenkan e Ura dove si agisce poi secondo le linee circolari.

Così come l’Irimi è indicato sovente come la base di tutte le tecniche dell’Arte, il triangolo è il primo poligono ed il più semplice dal quale si generano le altre figure. La corrispondenza citata con la tecnica Ikkyo a questo punto non stupirà; si tratta della prima tecnica che veniva insegna- ta: il “Primo Principio”. Dai Ikkyo realizza al meglio le caratteristiche dell’Irimi “triangolare” dove l’entrata non si limita alla “sfera” del partner, ma raggiunge l’interno della sua guardia e finanche il corpo, squilibrando fin dal primo istante la colonna vertebrale e perciò il Seichusen (la linea centrale). L’esecuzione di questa tecnica richiede iniziativa, sicurezza, precisione e volontà probabilmente più di ogni altra.

Il triangolo con il vertice orientato verso l’alto si ritrova in ogni civiltà e tradizione proprio come grafo primordiale del fuoco, e perciò con lo Spirito e lo Yang; si potrebbe quindi idealizzarla come la “prova del fuoco” a cui è simbolicamente sottoposto il praticante? Nella dialettica tra Fuoco (Yang) ed Acqua (Yin) è il primo a presiedere alla creazione, a stare all’i- nizio di ogni processo (anche l’Universo è nato da un’esplosione, e quin- di dal fuoco…). Il lato sinistro con cui il fondatore invita a cominciare ogni azione è infatti associato al Fuoco; e vale ricordare anche che ogni tecnica richiede una posizione triangolare Hanmi, ossia una postura triangolare.

IL CERCHIO

Passiamo dal triangolo al cerchio: O’Sensei associa questa figura alla fase centrale dell’esecuzione di una tecnica (squilibrio e indirizzamento delle linee di forza); quando Nage “conduce” Uke alla periferia di una sfera egli si pone saldamente al centro dell’azione da dove è possibile controllare ogni moto dell’avversario con sensibilità ed equilibrio.

Il triangolo iniziale diviene un circolo per rotazione; le geometrie dell’insie- me Nage-Uke, costituitosi con la fase d’entrata, seguono traiettorie curve continue, prive di spigoli e di arresti, segno di una capacità di accettazione dell’altro ispirata alle qualità simboleggiate dal cerchio, questo grazie a pro prietà quali l’equidistanza dei suoi punti dal centro e l’indifferente simme-
 tria rispetto ad un qualunque diametro.

Volendo indicare una tecnica che al meglio rappresenti questa azione di “guida secondo un cerchio” Shirata Sensei suggerisce En no Irimi Nage, l’Irimi Nage circolare, dove la rotazione sembra poter durare indefinitamen- te in virtù del sottile controllo dell’equilibrio del partner attraverso il suo asse centrale. È la fase del Tenkan, inteso come principio della rotazione, dove in ogni istante viene contenuta la potenzialità della chiusura, dove ogni punto del tracciato nello spazio è virtualmente passibile di uno svilup- po che conduca alla proiezione finale. L’attribuzione del cerchio a tale situa- zione evidenzia il senso fondamentale del simbolo quale emblema della perfezione o completezza della potenzialità, nonché di sostanza base da cui scaturisce la molteplicità. L’aikidoka dovrà porre in circolazione proprio il Ki, l’energia vitale, eliminando ogni ristagno e ristabilendo l’equilibrio dinamico nella relazione conflittuale Nage-Uke.

IL QUADRATO

Dal cerchio, simbolo della perfezione potenziale, giungiamo infine al qua- drato, emblema della perfezione in atto. Il quadrato, come si è visto, viene associato alla fase finale dell’esecuzione di una forma ed allo Shiho Nage.

Quest’ultima corrispondenza è probabilmente più immediata data l’etimo- logia, e fa riferimento a quattro direzioni mutuamente ortogonali. Queste coincidono con gli assi dei lati del quadrato e sono in naturale corrispon- denza con i punti cardinali. Le quattro direzioni, che divengono in seguito otto e quindi infinite, rappresentano l’estensione ordinata delle possibilità insite nel centro; il quadrato infatti, nella tradizione estremo-orientale, è il simbolo della terra e della sua estensione, e si addice perciò ad una tecni- ca che esalta la possibilità di azione in ogni direzione permettendo al cen- tro la proiezione di un avversario contro altri attorno a sé.

Shiho Nage è stato caratterizzato dal Doshu come la forma che più mani- festa il grado di perfezionamento conseguito; introducendo così l’altro aspetto semantico della figura quadrata sopra accennato: il sigillo di stabi- lità e dello stato ultimo della trasformazione, con i suoi quattro angoli retti ed i quattro lati uguali. La forma quadrata è spesso indicata come il simbo- lo del cristallo, della pietra tagliata a regola d’arte, della costruzione perfet- tamente equilibrata e finita, di ogni processo di giunto alla completa attua-
zione delle possibilità ad esso inerenti, compresa la massima realizzazione
spirituale.

Ecco emergere il senso della corrispondenza di tale figura con la fase di completamento di ogni tecnica, immobilizzazione o proiezione, fase in cui è cruciale la nozione di stabilità ed il richiamo della consapevolezza e “pre- senza” (Zanshin), che non possono essere altro che il frutto di un’operazio- ne interiore.

Con questi riferimenti e considerazioni, con una conoscenza chiara delle forme, non si troverà difficile riconoscere il carattere “quadrato” dell’immo- bilizzazione di Dai Ikkyo o della proiezione di Irimi Nage.